Masque Teatro debutta stasera al Diego Fabbri con Marmo

Una riflessione sul declino della società occidentale e sull'ansia dell'"uomo esausto"

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Marmo. Su una civiltà esausta” è l’ultima fatica con cui si confronta Masque Teatro. Venerdì 6 maggio alle 21 il Teatro Diego Fabbri di Forlì ospiterà il debutto in prima assoluta di questa loro nuova opera, che partendo da “La scrittura del disastro” di Maurice Blanchot si fa carne in scena grazie all’immaginario che Masque sa convocare.

Un riferimento culturale, Blanchot, che è parte endemica della compagnia fin dai suoi esordi: sono del 1992 i primi appunti di Lorenzo Bazzocchi, regista, direttore e fondatore di Masque, su La scrittura del disastro, a testimonianza di una puntualità speculativa, di un interesse coerente e duraturo, di un’ossessione che non svanisce finchè non si fa corpo in scena. “Come scopritore di mondi – afferma Bazzocchi – come ricercatore teatrale, mi avvicino a un opera per empatia, e cerco di dare corpo a delle sensazioni che per me sono una leva, un motore capace di forzare il mondo della scena che ha statutariamente regole diverse: se la scrittura di Blanchot appartiene allo spazio letterario, Marmo lo plasma facendolo diventare ritmico e corporeo: elementi propri della scrittura scenica”.
Con un’operazione di traduzione del concetto di disastro e di passività, Masque lavora sulla “qualità” dell’uomo esausto, ma anche estendendo il concetto, su una civiltà colta nel suo declino. Si arriva quindi a Emil Cioran, filosofo e saggista rumeno, che ne La tentazione di esistere, in particolare proprio nel capitolo intitolato Su una civiltà esausta descrive con minuzia l’incapacità da parte dell’uomo di capire il declino della propria civiltà nel momento in cui inizia a spegnersi, incapace di coglierne l’esaurimento e la caduta.
Non potendo cogliere questi segnali, l’uomo è colto da ansietà e incapacità costante di sapere dove si trova. La sensazione che lo spettatore proverà dinanzi a Marmo è una sensazione primordiale di inconsistenza, di impossibilità di piena adesione a se stessi e al proprio destino. Una percezione vicina a quella di chi esce dal coma e non riconosce la realtà che gli sta attorno ma nemmeno ricorda il passato. La scena: E’ come se ci fosse una duna da scalare, oltrepassare per guardare al di là. Un gruppo di figure la sta salendo e dalla sua sommità vede quello che potrebbe essere un reperto industriale fatto di strutture metalliche o le vestigia di una antica civiltà. Questo luogo è abitato da figure, alcuni sono musicisti sadicamente lontani dai propri strumenti musicali o costretti a delle posture impraticabili per suonarli.
Ci sono quattro “stazioni” ognuna delle quali ripercorre la nascita e l’euforia della grandezza di una civiltà e il suo declino. In una stazione c’è un uomo delle caverne vestito di merletti, seduto su una poltrona, che affronta il testo di Cioran sulla civiltà esausta, raccontandoci dell’uomo occidentale, oggi. In un immaginario visionario che pare uscito dalle fotografie dello statunitense Joel Peter Witkin con i suoi corpi fatti a pezzi, si percepisce forte il segno di una sofferenza, di una decadenza passiva, in questo contesto si muovono sul fondo due figure esili, esangui, che procedono a fatica, a stento si reggono sulle gambe, la loro deambulazione è incerta.
Ecco alcune considerazioni di Lorenzo Bazzocchi, regista della compagnia:
Se nella “Scrittura del disastro” si fa riferimento al Pensiero e alla impossibilità di una sua traduzione in segni e quindi dell’impossibilità stessa della scrittura, nel lavoro di Masque assistiamo ad una trasformazione di senso dove è la sensazione essenziale legata al disastro, ossia quella di IRREPARABILE, a tracciare il solco sul quale affondare la scrittura scenica. La parola “irreparabile” sembra essere lo stampo perfetto del Disastro di Blanchot. Siamo quindi partiti da questa sensazione fondamentale per cercare un ambiente, un paesaggio dove far nascere la nostra scena. L’abbiamo trovata nella parabola che compie una civiltà in declino. Ed abbiamo intuito che è proprio la civiltà contemporanea, con la sua ansia sotterranea, a pervadere il nostro orizzonte con questa sensazione, ossia quella cioè di una frantumazione inesorabile.
Mi è così ritornato alla mente un passo di un testo di Emile Cioran, “La tentazione di esistere”, un capitolo dedicato proprio ad una civiltà esausta, quella occidentale. Fatta di immagini e di paesaggi dove la parola emerge e scompare, sempre lontana da una necessità dialogica, la scena si compone di un universo di figure sole il cui conforto è la loro stessa umanità. Uno stato di pura passività. Come reagisce l’uomo alla notizia che la natura delle cose non è univoca e si manifesta con una doppia immagine meccanica e vibrazionale al tempo stesso? Come sopravvivere alla propria morte senza avere certezza della propria consistenza? Ricordo interminabili discussioni con mio padre Giulietto, maestro elementare, e le congetture fantastiche che formulavo ogniqualvolta si parlava di spazio e di tempo.
Qualcuno lancia un sasso e lo va a raccogliere. Se si suppone che i lanci procedano in linea retta egli sarà sempre in grado, prima o poi, di raggiungere quel sasso e di scagliarlo nuovamente in avanti. Reiterando all’infinito quel gesto supponevo si potesse dimostrare, quasi banalizzandola, l’infinità dello spazio. Mio padre sempre rispondeva che, come qualcun altro ha ben detto, lo spazio potrebbe esser curvo e che quindi il mio peregrinare verso l’infinito potrebbe non essere altro che un girare intorno a noi stessi. Rimanevo comunque convinto della mia originaria sensazione.
L’inconciliabilità tra quello che appare come razionale ed evidente ai nostri sensi e la vera natura delle cose mi spinge a ricercare con pervicacia, anche se con notevole affanno, quello stato originario che possa far avanzare, passo dopo passo, verso la propria riconoscibilità. Vorrei chiamare questo affanno “passività”. Una sorta di danza sul posto, un assalto ritmico al disastro che perennemente ci sta sopra, in bilico tra la condizione del non vivente e quella di colui che assiste alla propria morte. Progettare le cadute senza studiarne la risalita. Mettersi a repentaglio per amore del rischio. Edificare una sensazione di costante mutevolezza. Che la terra perda consistenza sotto i nostri piedi. Oppure ancora, diventare d’argilla per potersi plasmare. O di pietra, meglio di marmo, per resistere agli assalti furiosi dell’omologazione.

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