ROMAGNA. NEL SEGNO DELLA TRADIZIONE / 25 / Momenti di passaggio e vittime sacrificali: agnelli e buoi grassi, scherzi, digiuni, flagellazioni e processioni

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Nella morfologia delle grandi feste tradizionali (o di particolari occasioni) del ciclo dell’anno, cioè nei momenti di passaggio e di rinnovamento, si trovano spesso elementi rituali di carattere sacrificale. Questi da una parte riguardano l’individuazione di un capro espiatorio incaricato di rappresentare l’eliminazione di ciò che è vecchio e va rinnovato, oppure va sacrificato quale dono primiziale alle forze che sovrintendono ai destini degli uomini, oppure si fa simbolicamente carico di tutti i mali e i gravami del tempo passato e li espia, a beneficio di tutti, col proprio sacrificio indotto. Nella tradizione romagnola si possono trovare, di ciò, diversi esempi, fra i quali, seppure in maniera atipica e blanda, si possono annoverare anche gli scherzi del 1º d’aprile di cui abbiamo detto nella puntata precedente.

Passando ai giorni della Settimana Santa e della Pasqua troviamo altri e più significativi esempi. Partiamo dalla sfilata e uccisione dei buoi grassi, i quali, oltre a rappresentare una tradizione alimentare, andavano a ricoprire simbolicamente ed esplicitamente, insieme agli agnelli, anche il ruolo di capri espiatori. C’erano persino buoi allevati allo scopo con regime speciale; venivano fatti sfilare per le strade delle città e dei paesi, ornati di coperte e fiocchi, prima di essere condotti alla macellazione per vendere poi le loro carni. Il loro incedere sulle vie, tra le case e la gente, voleva rappresentare anche la loro funzione di raccogliere e farsi carico dei mali e dei peccati di tutti, quindi di assumere il ruolo di vittime sacrificali a beneficio della comunità.

Buona Pasqua

Nella festa della rinascita primaverile divenuta poi la Pasqua cristiana, in cui i contenuti della celebrazione liturgica della morte e resurrezione di Cristo si intonano con la rinascita della bella stagione e della vegetazione dopo la loro apparente «morte» invernale, occorreva rinnovare e rinnovarsi, anche con una purificazione del corpo e dello spirito, insieme al rinnovamento della natura. Già le limitazioni quaresimali rappresentavano una purificazione, che poi si esprimeva con falò, con pulizie profonde della casa e con la cosiddetta «trapassata», che consisteva in un digiuno che si teneva nei giorni della Passione, con eccessi penitenziali, con abluzioni, ecc.

Per liberarsi dei mali e dei peccati accumulati, ottenendo così la renovatio pasquale, ci si serviva anche di capri espiatori umani, che dovevano farsi carico simbolicamente dei mali ed espiarli (anche qui in sintonia con la vicenda di Cristo, l’Agnello di Dio che si sacrifica per espiare i mali e i peccati del mondo, e delle cerimonie di purificazione stagionale).

Troviamo per la Romagna, nella relazione conclusiva e riassuntiva dell’Inchiesta napoleonica sugli usi e costumi svoltasi nel 1811:

«Nella mattina del Sabbato Santo si dà sempre la burla a qualcuno dei meno accorti con farli portare alla Chiesa Parrocchiale una pesante cassa piena di sassi dandosegli ad intendere, che contenga le Chiavi dell’Alleluja, e dalla Parrocchiale vien diretto ad altre famiglie sotto diversi pretesti, finché il burlato se ne accorge» (in Tradizioni popolari nella Romagna dell’Ottocento, a cura di B. Garavini, Imola 2007, p. 324).

Così che l’uomo gravato dal peso dei sassi girava in pratica per tutte le case, raccogliendo e portando via simbolicamente i mali e i peccati di tutti. L’usanza era diffusa in varie parti d’Italia, e il siciliano Giuseppe Pitrè ne scriveva nel 1889:

«È risaputo che nelle funzioni del Sabato Santo, al primo apparire di Gesù Cristo risorto, la Chiesa alle antifone, ai responsori, al gloria-patri e ad altre preci aggiunge la voce Alleluja. Ora i nostri antenati […] fecero di questa voce ebraica un oggetto che va messo sotto chiave: e la mattina di ogni Sabato Santo trovarono sempre qualche bonaccione che a loro invito o preghiera andasse da questo o da quell’altro a prendere la chiave dell’alleluja (alcuni dissero e dicono anche del Sepolcro), senza la quale codesto curioso alleluja non si sarebbe potuto metter fuori, né proseguirsi le funzioni ecclesiastiche» (G. Pitrè, Il pesce d’aprile, «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari italiane», 1889, pp. 457-472: 469-470).

Riguardo alla tradizione devoto-penitenziale della «trapassata« a cui abbiamo accennato in precedenza, e di cui si hanno diverse testimonianze ancora nell’Ottocento, chiariamo che che essa consisteva nel fatto che alcuni fedeli, principalmente donne, osservavano un digiuno totale, col privarsi sia del magiare sia del bere, dalla legatura delle campane nel Giovedì Santo sino alla loro slegatura nel Sabato Santo. Tale consuetudine, che pure mostrava motivazioni devozionali cristiane, nelle testimonianze ottocentesche è dagli stessi parroci considerata un eccesso esulante i canoni dottrinali, quasi una pratica superstiziosa, e ciò esprime una mutata tolleranza nei riguardi di certe manifestazioni della religiosità popolare, anche se in passato si era assistito spesso a posizioni fra loro contradditorie: se un sinodo di Rimini del 1596, ad esempio, aveva condannato gli eccessi devozionali e penitenziali («praeces quosdam cum inani quondam statu, gestuve corporis in maiori Quadragesimae hebdomada recitandi»), nel 1711 l’ecclesiastico ravennate Giacomo Paganelli, in un suo libro di istruzioni per i parroci rurali, aveva scritto che la sera del Venerdì Santo, finita la funzione e congedati i ragazzi e le donne, il parroco avrebbe dovuto invitare gli uomini «con efficaci ragioni» a flagellarsi, dando il buon esempio con l’iniziare personalmente (G. Paganelli, Il novello parroco rurale, Forlì 1711, pp. 89-90).

Passione

Nei giorni rievocanti la Passione di Cristo, poi, in diverse località romagnole si tenevano fin dall’età medievale (e qua e là ancora si tengono) processioni devozionali, in passato non prive di forme penitenziali. Qui nei riti cristiani confluivano e inevitabilmente si confondevano quelli arcaici e pagano-agrari contemplanti, nei momenti di passaggio stagionale, forme dalla valenza purificatoria e propiziatoria. Resta, relativamente al periodo pasquale, il segno della densità rituale formalmente cristiana anche nel gran numero di «orazioni della Passione» che la nostra tradizione annovera. Dalla seconda metà del Cinquecento, nell’ambito delle devozioni della Settimana Santa, era avvenuta comunque un’evoluzione sotto la spinta controriformistica; la Chiesa cioè si era impegnata a regolamentarle per renderle più rispondenti alla disciplina ecclesiastica (e anche per evitare che nelle manifestazioni devozionali di massa confluissero possibili connotazioni di tipo sociale e politico, fonti di problemi di ordine pubblico e di idee anticonformistiche), fino a vietare le sacre rappresentazioni per sostituirle con altre devozioni concentrate principalmente in ambito liturgico.

Passione

I «Quadri della Passione» a Zattaglia di Brisighella

Ma la «processione drammatica» popolaresca, con intensità e vicende altalenanti, sopravvisse per arrivare in diversi casi fino all’oggi. Infatti in Romagna in diverse località si tengono ancora riti di questo tipo, nei quali però il carattere penitenziale è ormai principalmente simbolico e si rifà esclusivamente alla figurazione e celebrazione della ricorrenza del massimo «sacrificio».

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