“Fantasmi rossi enigmi arancioni”. L’intima Cambogia di Pier Giorgio Carloni

Intervista al pubblicitario, giornalista e fotoamatore ravennate Pier Giorgio Carloni in occasione della recente uscita del suo primo libro, dedicato alla Cambogia, pubblicato per i tipi delle Edizioni del Girasole

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Pier Giorgio Carloni, classe ’56, ha appena pubblicato il suo primo libro per le Edizioni del Girasole di Ravenna. Chi conosce l’autore potrà ritrovare nelle pagine di “Fantasmi rossi enigmi arancioni. La presenza di Angkor” alcuni tratti peculiari della sua personalità, capaci di rendere il racconto di un viaggio in Cambogia qualcosa di più complesso e stratificato di una semplice collezione di impressioni e cartoline. Questa profondità è ben sintetizzata dall’aforisma posto quasi ad esergo del libro: “O uomo! Viaggia da te stesso in te stesso.” 

 

Non si tratta qui di fare spicciola filosofia new-age, o di ripercorrere corrivi clichés sull’Oriente che avrebbero fatto venire l’orticaria a Edward Said. Al contrario, più concretamente, per Carloni il racconto di questo viaggio diventa un modo per fare i conti se stesso e col suo passato personale, intriso di passione politica, indignazione civile e amore per la bellezza. Un modo di esplorare e raccontare gli aspetti più intimi del suo carattere attraverso l’incontro con una realtà distante ed esotica. Accanto alle fotografie pulite, equilibrate, splendidamente simmetriche, procede il racconto in prosa, condotto sulle orme di padri nobili come Pierre Loti, Tiziano Terzani, Jorge Luis Borges. Carloni, affastellando citazioni e pensieri personali, riesce ad equilibrare ricordi di giovinezza, cronaca ravennate recente, la tragedia del genocidio cambogiano di quarant’anni fa, considerazioni sull’omologazione capitalista, sulla morte del comunismo, sul turismo di massa e una fascinazione pudicamente erotica per le figure eleganti e misteriose dei monaci buddisti.

 

Non c’è nelle pagine di Carloni l’affettata eleganza di un aspirante scrittore, né l’ansia documentaria del giornalista in trasferta. C’è, ed è questo che importa, una grande sincerità, che rende l’autore capace affrontare temi profondi con invidiabile semplicità, senza rimanere alla superficie dei problemi e senza slanciarsi in retoriche reprimende da vecchio comunista. Ma c’è soprattutto una profonda empatia verso quel mondo così complesso, difficile e distante. Un’empatia lontana da un sentimento terzomondista di comodo, scevra da patetismi e ideologie, talmente autentica da alimentare in alcuni passaggi del libro una delicata ritrosia nel racconto del paese e dei suoi abitanti, che risulta a tratti commovente. Ne abbiamo parlato con l’autore, nel suo ufficio, la redazione di questa testata, Ravennanotizie.

 

 

 

L’INTERVISTA

Fantasmi rossi enigmi arancioni è il tuo primo libro, giusto?

«Esatto. L’operazione più complicata è stata quella di convincermi che lo potevo fare, che ne valesse la pena. Un’azione di auto-convincimento.»

Per quale motivo è stato così difficile convincersi a pubblicare?

«Quando sei un lettore accanito, quando ti piace la letteratura, l’arte e ami le cose fatte bene, ti rendi conto della tua imperfezione, del tuo essere piccolo e inadeguato. È un grande freno, un elemento inibitore che rende difficile misurarsi con modelli e con riferimenti alti. Mentre scrivevo i primi capitoli a un certo punto ho confessato queste difficoltà all’editore, Ivan Simonini, che mi ha risposto: “Scrivere per la cronaca è un conto; scrivere per l’eternità è un altro”. Detta così, suona pomposamente, ma credo ci sia un fondo di verità in questa frase. Poi è scattato qualcosa. Non volevo sfidare gli dei, ma semplicemente lasciare qualcosa a chi mi conosce dell’esperienza e dell’emozione che ho vissuto durante il viaggio.»

La cosa interessante di questo libro è che esula dalla semplice letteratura di viaggio. Si tratta certamente di un reportage fotografico, di un resoconto di un viaggio ad Angkor, ma c’è di più. E questo surplus è dato dalla tua storia personale. Perché hai deciso di mettere così tanto di te stesso?

«Perché per raccontare delle emozioni in modo sincero bisogna tirare fuori un po’ o parecchio di se stessi, non si può rimanere distaccati. Questo viaggio, seppur breve, è stato molto intenso ed emozionante per me: come dice esplicitamente il libro, è stato un viaggio che ha messo in moto un viaggio interiore. Dire che è solo un libro di viaggio è limitativo, c’è il reportage, certo, ma c’è anche altro. La mia passione politica, la mia sconfitta politica – mia e di un’intera generazione. Nella mia giovinezza ho inseguito per anni l’utopia del comunismo democratico, della rivoluzione, poi ho scoperto che questa utopia languiva, era in agonia. Quindi è finita. Mi sono trovato scoperto, senza più casa, famiglia, fede, solo con me stesso. Ed è molto difficile sentirsi apolide, orfano politico, privo di riferimenti importanti.»

Hai trovato in Cambogia una risposta a questo senso di perdita?

«No. Forse inconsciamente questa ricerca mi ha portato là, così come mi ha portato in tanti altri luoghi. In questo viaggio c’è la ricerca di una dimensione nuova, spirituale, c’è la necessità di fare i conti con se stessi e con il mondo, ma la Cambogia non è una risposta a questa perdita. Sicuramente quel paese ha messo in moto tanti ragionamenti e tanti ricordi: si sente tutta la tragedia del comunismo, la sua apoteosi nera e tragica con Pol Pot. Ma c’è anche la tragedia contemporanea del mondialismo e del capitalismo che ha travolto il sogno di un mondo diverso, qualcosa che non si è mai realizzato e che si è trasformato nel suo contrario, nell’imperativo dell’arraffa più che puoi.»

La Cambogia come simbolo del fallimento di un’ideologia.

«Sì. E come simbolo delle contraddizioni della realtà attuale. Perché la Cambogia è tante cose, tutte assieme. Penso alla sua storia. Io ho studiato storia ma non ho mai terminato gli studi: questo fatto mi è rimasto sul gozzo. Ho sempre coltivato questa disciplina. Per questo mi ha affascinato la storia di questa grandissima civiltà antica dei khmer, che improvvisamente scompare, e lascia oggi testimonianze straordinarie in mezzo alla giungla. Poi tutta la parabola del comunismo, simbolo di un tragitto tragico, che ha portato al fallimento intere generazioni e interi popoli, al naufragio delle speranze di tanta gente nel mondo, come me orfana di un’idea e di una speranza di cambiamento. E quindi la realtà del presente, la povertà, delle persone che vivono nella miseria più nera: il portato di uno sviluppo squilibrato, di un mondo in cui abbiamo punte di ricchezza estrema e di miseria assoluta.»

Questo libro ha due binari di racconto: quello scritto in prosa e un racconto fotografico. Come è stato integrare questi due livelli narrativi?

«Nelle mie intenzioni iniziali doveva essere un libro puramente fotografico. Poi Ivan Simonini mi ha spinto a scrivere qualcosa. E lì sono cominciati i casini! Le parole sono venute da sé, ho scritto, forse troppo, poi ho limato e condensato. Ma soprattutto è venuto da sé che doveva essere una storia di questo genere, che le emozioni dovevano essere inquadrate in un viaggio che era tanti viaggi assieme.»

Il titolo è molto icastico: fantasmi rossi, ovvero la presenza di un passato politico tragico; dall’altra gli enigmi arancioni, i monaci, forse l’elemento che ti ha più stregato in questo viaggio.

«Tiziano Terzani definisce la Cambogia un paese dolce; e lo è. Ma è un paese in cui si è consumata una tragedia immane. Pensa che si calcola che un terzo della popolazione sia stata sterminata in una maniera brutale e crudelissima. Oggi, a distanza di quarant’anni, dopo un processo di rimozione necessario per ripartire e rinascere, il paese è di nuovo, malgrado tutte le sue contraddizioni e la sua povertà, un paese in cui regna il sorriso. Si avverte una grande pace. Questa dolcezza di fondo, questo carattere nazionale si ritrova anche oggi.»

Nei monaci?

«Sì, i monaci buddisti sono un simbolo di questa dolcezza. Anche loro sono stati sterminati dalla dittatura dei khmer rossi. Ce n’erano circa 30mila prima dell’arrivo al potere di Pol Pot. Alla fine pare che ne fossero rimasti meno di mille. I comunisti sterminavano tutti quelli che sapevano leggere e scrivere, che sapevano qualcosa di cultura, che erano secondo loro in un qualche modo compromessi con tutto ciò che era avvenuto prima. Una follia. Adesso i monaci sono tornati, giovanissimi, e sono in tanti, e stanno nei conventi anche per la povertà delle loro famiglie.»

Ho letto che i monaci buddisti possono tranquillamente smonacarsi.

«Sì, pare molto più semplice là rispetto all’Occidente. La vocazione è a tempo, revocabile. Ma quando fai la scelta monacale devi comunque rispettare il voto di povertà, di castità e di vita nomade.»

Perché li trovi enigmatici?

«Per un motivo molto prosaico. Ancora non capisco perché i colori delle loro tuniche siano così diversi! Vedi tre monaci, e avrai tre differenti sfumature di arancione. Forse dipende dai paesi di provenienza, dal tipo di corrente buddista; sembra che non ci sia una risposta univoca. Forse, più semplicemente, si tratta solo di usura: col lavaggio, le tonalità cambiano. Chi lo sa?»

 

 

Questi monaci sono molto fotogenici.

«Leggevo un’osservazione di Pierre Loti, un po’ razzista agli occhi dei lettori contemporanei. Lui arrivava dal Vietnam, e i vietnamiti non gli piacevano molto. Quando giunse in Cambogia ritrovò dei tratti somatici indoeuropei, visi più regolari e occhi più rotondi, e pensò che i cambogiani fossero più belli perché più simili agli occidentali. Ma in effetti è così: sono molto belli, aggraziati. Hanno una dolcezza anche nella fisiognomica, e non solo nei gesti, nei sorrisi e nell’accoglienza.»

Dei fantasmi rossi, invece, alla fine si ha l’impressione che siano dentro di te, e non visibili nel paese. È così?

«Assolutamente sì. Non ci sono tracce visibili di nessun genere nella zona di Angkor. Esiste un museo dell’olocausto cambogiano nella capitale Phnom Penh, all’interno di un famoso liceo che era diventato il quartiere generale dei khmer rossi, un campo di concentramento dove hanno macellato migliaia di persone. Nel resto del paese si è cercato di dimenticare.»

Parlami di Angkor, protagonista del tuo libro.

«È un parco archeologico vastissimo e bellissimo, dove ancora oggi pratiche devozionali e riti religiosi si mescolano al turismo di massa, quello che porta i veri soldi nel paese. Si tratta di un complesso di diversi grandi templi. Angkor Wat è quello più importante e famoso: è composto da una serie di costruzioni, c’è il tempio centrale, ci sono delle gallerie attorno, un parco, degli specchi lacustri, e anticamente biblioteche e altre costruzioni. Erano centri di vita. Come il Bayon, questo complesso di statue gigantesche e di visi misteriosi, che è stato il luogo che più mi ha affascinato e straniato.»

Nella pagine che dedichi alla descrizione di quei visi ci sono alcune tra le pagine più ispirate del libro. Ancora oggi non si capisce che cosa significhino in realtà.

«Sì, c’è chi dice che siano statue bonarie e paternalistiche; ma potrebbero anche essere effigi di grandi fratelli ante litteram, qualcosa di più inquietante, simbolo di un potere pervasivo e oppressivo. Inoltre, rimane aperta la questione di chi rappresentino. Il re? Una divinità, e quale? Entrambi? Probabile che sia tutto questo insieme, una divinizzazione della figura reale.»

Parliamo delle fotografie. Che cosa cerchi quando scatti una foto?

«Mi piace la bella costruzione dell’immagine. L’inquadratura, il soggetto, la ricerca del bello. Ora, io sono solo un amatore della fotografia, ma non riesco a seguire i fotografi che si appassionano al brutto, la dico così, tipo una fabbrica abbandonata e fatiscente o un muro sbrecciato. Riconosco il fascino di questa ricerca, ma io ho bisogno di essere ispirato dal bello della natura, dell’arte, di un monumento, delle persone. Cerco sempre di fermare nello scatto l’emozione di un momento, cosa molto complicata. A volte ci si riesce, spesso no. I grandi sì.»

Di che grandi parli?

«Penso a Steve McCurry, Sebastião Salgado. Sono maestri della fotografia mondiale, e in qualche modo, con tutta l’umiltà possibile, perchè non mi paragono a loro nemmeno lontanamente, li sento tuttavia molto vicini al mio sentire.»

Per te conta più catturare la bellezza che documentare la realtà?

«Tendo a cercare sempre un minimo di set o contesto, che mi possa aiutare in questa ricerca, un’inquadratura, un taglio…»

Che macchina usi?

«È una Nikon. Scatto in digitale.»

Le foto sono state ritoccate?

«No, il lavoro di correzione è stato molto limitato, ridotto al minimo indispensabile in pochi casi.»

Raffigurando monaci e templi, è stato difficile uscire dal cliché dell’orientalismo che abbiamo in testa?

«In effetti è abbastanza difficile sfuggire a questo cliché. Ci vorrebbe molto tempo, bisognerebbe entrare in empatia con i luoghi e con le persone. Io sono stato poco in Cambogia. Il contatto con questo mondo è stato molto mediato, tutto nella mia testa. I monaci, ad esempio, li ho fotografati sempre da lontano.»

La fotografia è capace di operare un avvicinamento, magari per un momento solo.

«In alcuni casi sì. In una foto un ragazzino mi guarda stupito mentre si sistema la tunica. C’è stato un altro monaco, che ho quasi pedinato, e a un certo punto ho temuto davvero di avergli rotto le scatole. Si volta e tira su il pollice, come a dire: “bravo, ma adesso dacci un taglio!” Sono fatto così, fotografo, ma a un certo punto mi freno. Ho quasi pudore.»

Questa è una cosa bella del tuo libro. Di solito chi racconta un paese estero cerca di entrare a capofitto nella sua cultura. Nelle tue foto invece c’è sempre un’atmosfera trattenuta, timida, che forse dà più profondità al tuo rapporto con quell’universo.

«C’è sempre molta mediazione da parte mia. D’altra parte, non c’era il tempo di far diversamente e di entrare in altri panni. E se tu l’hai vista così mi fa piacere.»

Quando presenterai il libro per la prima volta?

«Il prossimo 4 dicembre alla libreria Feltrinelli. Forse anche per l’ultima! (Ride).»

Sarà un esperimento isolato, o stai pensando di scrivere qualcosa d’altro?

«Mi piacerebbe scrivere qualcosa sull’Iran, un paese velato. Per una doppia ragione: resta per noi abbastanza nascosto, ma anche perché l’altra metà del cielo lì è velata. Le donne sono una presenza che si vede, è molto forte, suscita interrogativi. Partendo da lì, mi piacerebbe raccontare il nostro rapporto con l’Islam, con le paure che suscita e le ossessioni che tutti abbiamo. Un altro progetto sarebbe raccontare Ravenna, ma con un taglio particolare, non col solito già visto. Mi rendo conto che è molto difficile: è già stata fotografata e raccontata migliaia di volte. Si rischia la banalità. Non lo so. Vedremo.»

Questo libro inaugura una collana nuova per le Edizioni del Girasole, “GaiaMusa”. Mi spieghi di che progetto si tratta?

«Forse te lo spiegherebbe meglio Ivan Simonini! Il titolo “GaiaMusa” lascia intendere una collana in cui la libertà del racconto possa diventare, in un qualche modo, anche ispirazione libertina. Ciò può voler dire anche scrivere di erotismo, di fascinazioni particolari, di esperienze non ortodosse. Immagino che questo sia l’intento di Simonini, di poter far emergere opere e lavori rimasti nel cassetto, che per scrupolo non si ha avuto il coraggio di tirare fuori e di pubblicare. Mi piacerebbe fosse così.»

 

A cura di Iacopo Gardelli

 

 

Nelle tre foto, dall’alto: la zangolatura dell’Oceano di latte ad Angkor Wat, tre monaci in cammino verso Ta Prohm e i grandi visi di pietra del Bayon.

 

FANTASMI ROSSI ENIGMI ARANCIONI

di Pier Giorgio Carloni

Edizioni del Girasole

24 x 24 cm

128 pagine di cui 64 pagine fotografiche a colori 

15,00 Euro

IL LIBRO È DISPONIBILE NELLE LIBRERIE E ANCHE ONLINE:

https://www.ibs.it/fantasmi-rossi-enigmi-arancioni-libro-generic-contributors/e/9788875676148#.Whb0XjohjnI.facebook

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